IL PRETORE
    Letti  gli  atti  del  procedimento  penale  a  carico di Montrone
 Michele nato a Bari il 26 agosto 1958 imputato  del  reato  p.  e  p.
 dall'art. 25, primo comma del d.P.R. n. 915 del 10 settembre 1982 per
 aver  installato  e  gestito  attivita'  di  smaltimento  di  rifiuti
 speciali: materiale ferroso, prodotti da terzi, quale titolare  della
 ditta  Ecofer S.r.l., sul terreno pertinente al civico di via Caboto,
 20, senza la prescritta autorizzazione.
    Fatti accertati in Trieste il 30 settembre 1991, nonche' gli  atti
 del  procedimento  penale a carico di Montrone Michele nato a Bari il
 26 agosto 1958 e di Korenika Stelio nato a Capodistria (Slovenia)  il
 4  ottobre  1956 imputati del reato p. e p. dagli artt. 110 del c.p.,
 25, comma primo, del d.P.R. n.  915/1982  perche',  in  concorso  tra
 loro,  nelle  qualita'  di  legale rappresentante della ditta "Metfer
 S.r.l." (Korenika) e di apparente  dipendente  della  ditta  predetta
 (Montrone),  smaltivano  nell'area  di  via  Flavia di Aquilinia, 17,
 senza  la  prescritta  autorizzazione,  materiali  ferrosi,   nonche'
 carcasse di autoveicoli, da ritenersi rifiuti speciali.
    Fatti  commessi  in Muggia (Trieste), dal novembre 1992 all'agosto
 1993 e  quelli  a  carico  di  Korenika  Stelio  nato  a  Capodistria
 (Slovenia)  il  4  ottobre 1956 e Metlica Graziano nato a Trieste l'8
 dicembre 1958 imputati del reato p. e p. dagli artt.  110  del  c.p.,
 25,  terzo comma, del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, per avere, in
 concorso tra loro, quali titolari della "Metfer  S.r.l.",  gestito  e
 comunque  realizzato una discarica per lo stoccaggio e lo smaltimento
 non autorizzata di rifiuti urbani e speciali, consistiti in materiali
 ferrosi prodotti da terzi; e del reato p. e p. dagli  artt.  110  del
 c.p.,  9-octies  del  d.-l.  9 settembre 1988, n. 397, convertito con
 modificazioni nella legge 9 novembre 1988,  n.  475,  perche',  quali
 titolari   della  "Metfer  S.r.l.",  omettevano  di  comunicare  alla
 Direzione  regionale  dell'ambiente  della   regione   Friuli-Venezia
 Giulia,  nel  termine prescritto, i dati richiesti dall'art. 3, comma
 terzo e dall'art. 5, comma quinto, stessa legge e  non  ottemperavano
 all'obbligo  relativo ai registri di carico e scarico di cui all'art.
 3, comma quinto, della medesima legge e 19 del  d.P.R.  n.  915/1982.
 Accertato in Trieste il 21 aprile 1993;
    Rilevato  che in pendenza del presente giudizio sono stati emanati
 e reiterati piu' decreti-legge (a  tuttoggi  non  convertiti),  e  da
 ultimo  quello  del  d.-l.  7  gennaio 1995, n. 3, sul riutilizzo dei
 residui, derivanti da  cicli  di  produzione  o  di  consumo,  in  un
 processo produttivo o in un processo di combustione;
    Ritenuto   che   l'art.   2,   quarto   e  quinto  comma  di  tale
 decreto-legge, appare in contrasto  con  gli  artt.  3,  25,  secondo
 comma, 97, 10 e 11 della Costituzione;
    Ritenuto  che tale questione sia rilevante ai fini della decisione
 del presente giudizio e non manifestamente infondata;
                             O S S E R V A
    L'istruttoria dibattimentale ha evidenziato come l'attivita' posta
 in essere dall'imputato rientri nella fattispecie di cui  all'art.  3
 del d.-l. citato.
    La  difesa,  dopo avere asserito che i rottami ferrosi non possono
 essere considerati rifiuti ai sensi del d.P.R. n. 915/1982, in quanto
 oggetto di compravendita, ha prodotto a tal  fine  alcuni  bollettini
 ufficiali   delle  Camere  di  Commercio,  industria,  artigianato  e
 agricoltura di  Udine,  Milano,  Torino  e  Firenze  da  cui  risulta
 l'inclusione  di  essi tra i materiali quotati e invocato il disposto
 dall'art. 2, quarto comma, del d.-l. n. 3/1995,  nonche'  evidenziato
 la  loro  inclusione nell'allegato I del d.m. 5 settembre 1994 (i cui
 effetti sono fatti salvi dall'art. 21 del  d.-l.  n.  3/1995)  tra  i
 materiali  quotati  presso  le  camere di commercio che continuano ad
 essere esclusi dal campo di applicazione del decreto-legge.
    Il diposto dall'art. 2,  quarto  comma  del  decreto-legge  citato
 definisce  infatti  i casi in cui i materiali quotati dalle camere di
 commercio, sono da  classificare  come  merci  o  prodotti  e  quindi
 "esclusi dal campo di applicazione della normativa (in questione)".
    Da  una  prima  interpretazione della norma potrebbe desumersi che
 tali  materiali  acquisiscano  la  qualifica  di  merci  o   prodotti
 ("purche'  comunicati  al Ministero dell'ambiente entro l'11 novembre
 1993"), anche in assenza  di  qualsiasi  provvedimento  ministeriale,
 conservandola sino a "ricognizione positiva" (ma aggiungeremmo, anche
 "negativa"), come sembra arguirsi dal disposto del quinto comma dello
 stesso  articolo, secondo cui la formazione, - entro i quarantacinque
 giorni della entrata in vigore del decreto  stesso  -  di  un  elenco
 nazionale  dei  materiali quotati, ha solo la funzione di evidenziare
 quelli tra essi che "continueranno" ad essere esclusi  dal  campo  di
 applicazione  del  presente  decreto  e  di  quelli  ai  quali non si
 applichera' l'esclusione stessa.
    Cio' determina  la  inevitabile  conseguenza  che  quei  materiali
 continueranno  a  circolare  come  merci o prodotti, senza controlli,
 sino a quando non interverrano i provvedimenti ministeriali suddetti.
    In quest'ultimo caso  potrebbe  verificarsi  la  inclusione  degli
 stessi  materiali  che  prima  circolavano  liberamente  come  merci,
 nell'elenco ministeriale  dei  materiali  ai  quali  non  si  applica
 l'esclusione e quindi essere "riclassificati" come residui.
    L'aggiornamento  periodico  di  cui  al settimo comma dello stesso
 articolo, non aiuta di molto l'interprete.
    Da quanto suesposto, discende che  se  alla  lettura  della  norma
 (art.  2, quarto comma, del decreto-legge) si da' una interpretazione
 estensiva, nel senso di ritenere che vadano  esclusi  dall'ambito  di
 applicazione  del  decreto  in  questione,  i  materiali  quotati  in
 qualsiasi  listino,  mercuriale  o   borsa-merci   istituito   presso
 qualsiasi   camera   di  commercio  del  territorio  nazionale  (tale
 interpretazione sembrerebbe  avvalorata  dalla  modifica  intervenuta
 gia'  nel  d.-l.  7  novembre  1994,  n. 619 e da ultimo in quello n.
 3/1995, essendo stato escluso il riferimento alle camere di commercio
 "dei capoluoghi di regione", essa  norma  non  dovrebbe  sfuggire  al
 sindacato di codesta Corte, per contrasto con gli artt. 3, 25, 97, 10
 e 11 della Costituzione.
    Analogamente,   se   si  desse  invece  una  lettura  restrittiva,
 ritenendo che l'esclusione trovi applicazione  solo  in  presenza  di
 materiali quotati nei listini della camera di commercio delle singole
 regioni,  essa  non  sfuggirebbe a censura di costituzionalita' per i
 motivi che qui si esporranno.
    Sembra infatti che, la scelta del legislatore, di affidare ad  una
 autorita'  amministrativa,  il  potere  di  includere  o meno un dato
 materiale in un  listino  (e  quindi  sottrarlo  alla  normativa  sui
 rifiuti:  d.P.R.  n.  915782  e  da ultimo a quello del decreto-legge
 citato con riferimento soprattutto agli artt. 3 e 5 e  segg.),  violi
 il  principio  di  uguaglianza  sostanziale  di  cui all'art. 3 della
 Costituzione,  potendo  dare  origine  a ingiustificate disparita' di
 trattamento tra regione e regione,  ove  la  identificazione  di  uno
 stesso  materiale  come  "merce" avvenga in un capoluogo di regione e
 non in un altro (cio' se aderisce alla seconda interpretazione  della
 norma   di  cui  all'art.  2,  quarto  comma,  del  decreto-legge)  e
 altrettanto, qualora si accolga la prima interpretazione della  norma
 citata, attesi gli spazi temporali vuoti che si creerebbero in attesa
 dell'elenco  nazionale  predisposto  sulla  base  dei  commi quinto e
 settimo dello stesso articolo.
    La eventuale diversa qualificazione operata  infatti  dal  decreto
 ministeriale,   qualora  venisse  riclassificato  come  "residuo"  un
 materiale  prima  quotato  come  merce,   determinerebbe   di   certo
 disparita'  di  trattamento  tra  identici  beni qualificati ora come
 merce liberamente circolante ora  come  rifiuto  e  incertezza  sulla
 liceita'/illiceita' del proprio comportamento da parte del cittadino.
    Il lasciare alla p.a. la discrezionalita', nel modo irrazionale in
 cui  si e' detto, di valutare le fattispecie che possono avere o meno
 rilevanza penale, sembra violare inoltre il principio  della  riserva
 di  legge penale e quello di stretta legalita', potendo tali condotte
 condurre a valutazioni giudiziarie difformi sotto  il  profilo  della
 rilevanza  penale  (gli  stessi fatti illogicamente potrebbero andare
 sic et simpliciter esenti da pena o essere invece puniti, qualora non
 venisse dimostrato che si tratti di "residui individuati") nei  sensi
 e nei termini di cui all'art. 5 e segg. del decreto-legge o non fosse
 provato la loro effettiva o oggettiva finalizzazione al riutilizzo).
    Sarebbe  poi contrario ad ogni principio di civilta' giuridica, la
 retroattiva applicazione di disposizioni penali (quelle del d.P.R. n.
 915/1982) a materiali dichiarati e regolati come "merci" nei listini,
 qualora gli stessi fossero poi classificati come residui dai  decreti
 ministeriali.
    La eventualita' di una mancata o parziale conversione del decreto,
 condurrebbe,  poi per i fatti pregressi al decreto-legge, come quello
 in esame, a ritenere applicabile il d.P.R. n. 915/1982,  non  potendo
 la   norma   contenuta  in  un  decreto-legge  non  convertito  avere
 attitudine (ex art. 77, ultimo comma della Costituzione) ad inserirsi
 in un fenomeno successorio quale  quello  disciplinato  dall'art.  2,
 commi  secondo  e  terzo del c.p. (Corte cost. n. 51, dd. 19 febbraio
 1985), per cui, potrebbe arrivarsi all'assurdo di  emettere  sentenze
 del  tutto  diverse  per fatti identici, a seconda del momento in cui
 gli stessi sono trattati.
    In questo  quadro,  appare  corretto  il  richiamo  alla  costante
 giurisprudenza  di  codesta  Corte  in  casi  simili,  secondo cui il
 principio di uguaglianza consente al  legislatore  di  emanare  norme
 differenziate  riguardo  a  situazioni  obiettivamente diverse solo a
 condizioni che tali norme rispondano all'esigenza che  la  disparita'
 di  trattamento  sia  fondata  su presupposti logici e obiettivi, che
 razionalmente ne giustifichino l'adozione (cfr. n. 3/1963).
    La stessa Corte ha ritenuto violato il  principio  di  uguaglianza
 quando  con  leggi  successive  si  dia vita ad un "sistema normativo
 assolutamente squilibrato" (sent. n. 254/1994).
    Il che e' avvenuto, a giudizio di  chi  scrive  -  e  pertanto  si
 chiede  una  pronuncia  sul  punto - con l'articolo del decreto-legge
 citato che ha introdotto una normativa  squilibrata  e  contraria  ad
 ogni principio di ragionevolezza.
    Inoltre  il legislatore, dopo aver definito il concetto di residuo
 (quale si ricava dall'art. 3, alett. g) e  lett.  a),  e  dettato  la
 relativa  disciplina, ha demandato in primis alle camere di commercio
 e poi  al  Ministero  dell'ambiente  la  esclusione  o  inclusione  -
 dall'ambito  di  applicazione  del  decreto-legge  in  questione - di
 determinati materiali senza fornire presupposti, carattere, contenuto
 e  limiti   cui   dovra'   soggiacere   l'autorita'   amministrativa,
 nell'espletamento  dell'attivita'  delegata  e  quindi  ha  demandato
 all'autorita' amministrativa tutti i termini normativi rilevanti  per
 l'individuazione  del fatto tipico, contraddicendo l'esigenza che sia
 solo la legge dello Stato a stabilire con sufficiente precisione  gli
 estremi di un fatto o condotta penale.
    Ora,  in ordine alla delimitazione dei rapporti tra legge penale e
 fonti subordinate, e giurisprudenza costante  di  codesta  Corte,  e'
 stata  quella  di  ritenere  che il principio di legalita' in materia
 penale, sia soddisfatto sotto il profilo della riserva di legge (art.
 25,  secondo  comma  della  Costituzione),   allorche'   quest'ultima
 determini  con sufficiente specificazione il fatto cui e' riferita la
 sanzione penale.
    E' necessario che la legge consenta di distinguere  tra  la  sfera
 del lecito e quella dell'illecito, fornendo a tal fine un'indicazione
 normativa  sufficiente  ad orientare la condotta dei consociati (cfr.
 Corte cost. nn. 364/1988 e 282/1990).
    Nel caso di specie,  l'incertezza  sulla  liceita'/illiceita'  del
 comportamento   e'  aggravata  dalla  possibilita'  di  aggiornamento
 periodico di cui  al  settimo  comma  dell'articolo  citato  che  non
 esclude  un  potere  della  p.a. nei termini contraddittori di cui in
 motivazione  (Camera  di  commercio/Min.  dell'ambiente)  di  revoca,
 sostituzione   o   modifica   dei   materiali  contenuti  nell'elenco
 preesistente, dando vita ad una  tecnica  normativa  suscettibile  di
 indurre  incertezze  sul  contenuto essenziale dell'illecito penale e
 quindi  non   corrispondente   alle   esigenze   del   principio   di
 determinatezza.
    Ulteriore  parametro  normativo  e'  l'art. 97 della Costituzione,
 essendosi determinata una situazione  incompatibile  con  l'esercizio
 della  giurisdizione  ed  in  particolare  con  il principio del buon
 andamento della p.a. (e quindi delle decisioni giudiziarie).
    Quest'ultimo richiede  maggiori  certezze  e  maggiore  stabilita'
 delle   leggi,   costringendo  l'attuale  ricorso  alla  decretazione
 d'urgenza - ormai in voga  nel  nostro  Paese  da  alcuni  anni  -  a
 decisioni  giudiziarie  a  volte  difformi su identiche situazioni; a
 costi  elevati  dell'attivita'  giurisdizionale  per  le   lungaggini
 (rinvii  in attesa della conversione) che si determinano nei processi
 e alla conseguente necessita', per l'ufficio requirente, di ricorrere
 a "fantasiose" impugnazioni al fine di evitare sperequate  decisioni,
 in  attesa  che  i  termini  -  ormai dilatata tra la emissione della
 sentenza di primo e secondo grado - conducano ad un punto fermo sulla
 materia.
    L'articolo richiamato sembrerebbe contrastare infine con gli artt.
 10 e 11 della Costituzione, a seguito della  entrata  in  vigore  del
 regolamento  CEE  del  Consiglio n. 259/1993 (approvato il 1 febbraio
 1993 ed entrato in vigore il 10 maggio 1994)  "sulle  spedizioni  dei
 rifiuti  all'interno  della Comunita' europea ed in entrata ed uscita
 dal  suo  territorio",  il  quale,  nell'Allegato  II, qualifica come
 "rifiuti",  gli   stessi   residui   produttivi   che,   secondo   il
 decreto-legge  in esame, possono ricadere sia nell'elenco dei listini
 o mercuriali (e quindi circolare  liberamente  come  prodotti  al  di
 fuori  del  campo  di  applicazione  del  decreto),  sia  nei residui
 destinati al riutilizzo di cui al decreto-legge citato.
    Gia' codesta Corte in  casi  similari  ha  espresso  il  principio
 secondo   cui  una  legge  italiana  contrastante  con  la  normativa
 comunitaria, comportando violazione di convenzioni internazionali  ed
 in  particolare  degli  impegni limitativi della sovranita' nazionale
 assunti con la CEE, viola gli artt. 10 e 11 della  Costituzione  cfr.
 nn. 183/1973, 232/1975, 205/1976 e 163/1977).
    Nel  caso di specie, lo Stato italiano non solo non ha recepito le
 direttive  CEE  (come  emerge  dall'art.   1,   quarto   comma,   del
 decreto-legge  citato)  entro  i  termini  previsti (aprile 1993), ma
 consapevolmente sta legiferando di urgenza  in  contrasto  con  essa,
 basti  pensare  che  i  materiali quotati non sono piu' soggetti agli
 obblighi comunitari  (direttive  n.  156/1991  CEE  e  689/1991  CEE)
 stabiliti  per  i  rifiuti  (o  residui) destinati al riutilizzo o al
 recupero.
    Le questioni prospettate appaiono rilevanti ai fini  del  presente
 giudizio,   dipendendo   dalla   loro   risoluzione  la  formula  del
 dispositivo da adottare.
    La dichiarazione di costituzionalita' della norma (art. 2,  quarto
 e quinto comma, del decreto-legge citato) e quindi, la inclusione dei
 rottami  ferrosi  nei  listini  delle  camere  di commercio di Udine,
 Milano, Firenze  e  Torino,  comporterebbe  la  inapplicabilita'  del
 decreto-legge  citato  e la assoluzione degli imputati trattandosi di
 "merce e non residui".
    Di  conseguenza,  la  pronuncia  avrebbe  riflessi   anche   sugli
 adempimenti  ulteriori  (obbligo di denuncia alla Direzione regionale
 dell'ambiente dei dati di cui all'art. 3, comma terzo, della legge n.
 475/1988 e alla  tenuta  dei  registri  di  carico/scarico)  cui  gli
 imputati non sarebbero piu' tenuti.
    Viceversa,   una   eventuale   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale, condurrebbe  ad  una  eventuale  condanna,  salvo  il
 supplemento   di  indagine  sulla  sussistenza  della  causa  di  non
 punibilita' di cui all'art. 12, terzo  comma,  del  decreto-legge  n.
 3/1995  (sul  quale  articolo  e'  gia'  stata sollevata questione di
 legittimita' dal pretore di Verona con ordinanza  n.  423  pubblicata
 sulla Gazzetta Ufficiale 13 luglio 1994).